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Per delineare il quadro di contesto in cui si colloca Violenza zero! è utile ricordare che le statistiche relative agli ultimi anni segnalano un incremento del numero di minorenni autori di reati a sfondo sessuale, presi in carico dai Servizi Minorili della Giustizia.

Si tornerà fra breve sul significato dei dati relativi a questo incremento, perché interessa in primo luogo sottolineare che esso va posto anche in relazione al mutato clima giuridico, che non tutela più soltanto il corpo, bensì la dignità della persona, ovvero il senso del pudore della singola persona[1].

 

[1] Per il Codice Penale (codice Rocco) i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all’onore sessuale”). Si affermava in sintesi che la violenza sessuale non offendeva principalmente la persona ma ledeva una generica moralità pubblica e, nel contempo, si dimostrava che il bene da proteggere e tutelare non riguardava solo la persona bensì il “buon costume” sociale, all’interno di un clima culturale secondo il quale la donna non era libera di disporre di una piena libertà in campo sessuale. E fino al 1996 il reato di violenza sessuale era perseguibile solo attraverso una querela della parte offesa (se la persona che subiva tale reato non denunciava l’autore non vi era azione giudiziaria). Le modifiche intervenute a partire da quegli anni hanno operato un significativo cambiamento in termini culturali e giuridici, nella misura in cui hanno riconosciuto il reato sessuale come reato contro la persona e non più contro la morale pubblica.

Basti ricordare che la L. 15 febbraio 1996 n. 66 ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine, previsti dalla normativa precedente, nella nozione unitaria di atti sessuali, collocandoli tra i reati contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica e il buon costume. La sfera sessuale è così stata intesa come facoltà della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante dal punto di vista penale viene oggi valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all’attitudine ad offenderne la libertà di autodeterminazione. La ratio della norma risiede nel delineare una nozione di reati sessuali, in cui rientrano tutti quegli atti che sono oggettivamente idonei a minacciare o offendere la libertà del soggetto passivo, con invasione della sua sfera sessuale[2].

[2] Il reato di cui all’art. 609 bis c.p. è posto a presidio della libertà sessuale dell’individuo, che deve compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale e contro ogni non voluta intrusione nella sfera sessuale. La libertà sessuale, quale espressione della personalità dell’individuo, è tutelata dall’art. 2 della Costituzione e l’assolutezza del diritto non tollera possibili attenuazioni che possano derivare dalla ricerca del fine ulteriore e diverso dalla semplice consapevolezza di compiere un atto invasivo della sfera sessuale altrui senza consenso (Sez. 3, n. 21020 del 28 ottobre 2014. P.G. in proc. C., Rv. 263738; Sez. 3, n. 12506 del 23 febbraio 2011, Z., Rv. 249758). Rientra nella nozione di atto sessuale qualunque atto che coinvolga oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e sia finalizzato a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva dell’autore di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. Il concetto di libertà sessuale viene inteso in giurisprudenza in due diverse accezioni: l’una avente un contenuto negativo, l’altra un contenuto positivo. Nella prima accezione, essa ha il significato di diritto a non subire l’altrui sopraffazione sessuale. Dall’altro, si afferma che la libertà sessuale è anche libertà di oltre che libertà da, ossia libertà di disporre del proprio corpo e di compiere libere scelte in relazione alla propria sessualità.

Questa profonda trasformazione dell’assetto normativo implica che oggi sia presente, all’interno dell’ampia realtà dei reati a sfondo sessuale commessi da minorenni, una molteplicità di fattispecie prima inedite (tra cui in primo luogo il vasto insieme dei reati sessuali commessi con l’ausilio degli strumenti resi disponibili dalla tecnologia informatica) unitamente ad una molteplicità di condotte perseguibili penalmente, di cui talvolta risulta difficile comprendere con chiarezza la portata violenta ed il grado di offensività nei confronti della persona che li subisce. Le indagini condotte attraverso l’ascolto degli operatori nell’ambito dei focus group, nella prima fase di Violenza Zero!, con riguardo ai minori autori di questi reati presi in carico dagli USSM coinvolti nel progetto, hanno infatti mostrato che la tipologia dei comportamenti sanzionati e le modalità attraverso cui tali comportamenti sono stati messi in atto spaziano da una quota minoritaria di vere e proprie forme di sopraffazione del reo sulla vittima (un esempio su tutti: le violenze sessuali di gruppo) fino a forme in cui il reato sembra piuttosto rimandare all’espressione di una sorta di sperimentazione maldestra – beninteso: sempre deprecabile – di approcci impropri alla sessualità.

Tornando ora sull’incremento numerico dei minorenni autori di reati sessuali, vale precisare in questa premessa che i dati statistici, di fronte alle tante violazioni della sfera personale che toccano più o meno direttamente la sessualità e sono penalmente punibili, intendono per “reato sessuale” un insieme di fattispecie composto da due gruppi: i reati di violenza sessuale e gli altri reati sessuali. Nel primo gruppo ricadono i reati previsti dalla Legge 15 febbraio 1996 n. 66, già ricordata. Nel secondo gruppo sono compresi i reati introdotti dalla Legge 3 agosto 1998, n. 269 “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di schiavitù”, unitamente a quelli di “Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia” (art.414 bis c.p.) ed “Adescamento di minori” (art. 609 undecies c.p.) ed ai reati di tratta (art. 601 e 602 c.p.) maltrattamenti in famiglia (art.572 c.p.) atti persecutori o stalking (art.612 bis c.p.) nonché ai più recenti reati cosiddetti “Codice rosso”, introdotti dalla Legge 19 luglio 2019 n. 69 “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” al cui interno ricade anche il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612 ter c.p.). Come si vede, la quantificazione statistica del fenomeno racchiude un insieme di comportamenti tra loro molto diversi per gravità che, ai fini di una loro migliore qualificazione, rende necessaria anche un’analisi dei singoli casi. Posto dunque che le statistiche segnalano un incremento dei minori autori di reati sessuali e forniscono importanti indicazioni sul loro profilo (fascia d’età, genere, cittadinanza e quant’altro) ma dicono poco sulla gravità e la rilevanza penale dei comportamenti di cui essi si sono resi protagonisti, Violenza Zero!ha altresì tentato di apportare un contributo conoscitivo per l’appunto agli aspetti più qualitativi del fenomeno in oggetto – ancorché necessariamente parziale e senza alcuna pretesa di esaustività – che le indagini statistiche quantitative non riescono ad evidenziare ed ha pertanto invitato i 29 USSM operativi a livello nazionale a presentare i loro casi alla discussione condivisa all’interno di specifici focus group.

Orbene, nella maggior parte dei casi offerti dagli operatori alla discussione dei focus group il reato commesso dal minore è risultato essere di tipo relazionale (cioè realizzato tra persone che già si conoscevano prima del fatto) e nondimeno la tipologia del gesto (atto sessuale, palpeggiamenti, molestie, cyberreato e quant’altro) [3] è apparsa difficile da definire in situazioni in cui non è netto ed immediato il confine tra consuetudine all’intimità e prepotenza, insistenza e minaccia, richiesta e sopraffazione – soprattutto nei casi (i più frequenti) in cui l’età della vittima è vicina a quella dell’autore di reato. Si connette altresì alla variabile “relazionalità del reato” il tema altrettanto complesso del consenso: molti dei casi presentati – e fatta eccezione per quelli che riguardano, come si diceva, chiari atti di sopraffazione – raccontano di reati per i quali diviene complicato stabilire quando e come il consenso non sia stato effettivamente richiesto, quando ancora sia stato cercato ma non acquisito, anche, ad esempio, rispetto ad un margine di fraintendimento della comunicazione. In altri casi il consenso, seppur dato, non era valido oppure appariva parziale, ad esempio: un consenso a filmare un incontro sessuale ma non a diffondere il materiale filmato; un consenso da parte di persona non incosciente ma nemmeno completamente lucida (come nell’eventualità di assunzione più o meno volontaria di alcol o sostanze); un consenso limitato a determinate condizioni che è stato invece impropriamente o surrettiziamente inteso come un consenso per il tutto e a qualsiasi condizione.

[3] In tema di violenza sessuale, la nozione di atti sessuali è la risultante della somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine, previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti, per cui essa viene a comprendere tutti gli atti che, secondo il senso comune e l’elaborazione giurisprudenziale, esprimono l’impulso sessuale dell’agente, con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo. Nella nozione di atti sessuali devono pertanto essere inclusi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica.

Ne emerge un quadro in cui l’ampia maggioranza dei “fatti” da cui scaturisce il procedimento penale s’inquadra in situazioni relazionali, che vedono posti, l’uno dinanzi all’altro, adolescenti – pressoché coetanei – tra i quali è frequente una sorta di “fraintendimento del gesto”. Nel segnalare questo aspetto, gli operatori non intendono in alcun modo minimizzare né tantomeno giustificare l’offensività e la lesività (sia per il corpo sia per la dignità) di gesti o condotte certamente illeciti ed impropri. Ma vi è anche l’impressione che, in adolescenza e nell’ambito della sfera sessuale, atti e condotte, che pure sono gravi sul piano sia umano sia giuridico (dunque deplorevoli oltre che illeciti) non sempre vengono percepiti come tali da coloro che se ne rendono protagonisti. Atti e condotte che – sebbene non percepiti né riconosciuti nel loro esser deplorevoli ed illeciti – comunque rappresentano segnali di un’inefficienza o disfunzionalità degli adulti di riferimento (a partire dai genitori) che non sono stati in grado di fornire un orientamento in tema sessuale, né un corretto approccio alla “scoperta” della sessualità, né una valida elaborazione delle prime esperienze. La quota ampiamente maggioritaria delle storie di reati sessuali commessi da minorenni non vede protagonisti ragazzi “devianti” nel pieno senso di questo termine, bensì adolescenti autori di gesti e condotte inquadrabili nella sperimentazione maldestra di approcci impropri alla sessualità, in cui è carente il completo consenso dell’altro e che rappresentano inoltre un momento transitorio del proprio sviluppo psicosessuale e relazionale, peraltro già superato quando vengono presi in carico dai servizi per compiere un percorso “trattamentale”. Si tratta infatti di adolescenti entrati in contatto per la prima ed unica volta col sistema penale e che non sempre provengono da ambienti familiari a forte rischio né da contesti sociali criminogeni. Certamente il reato sessuale non è di esclusiva pertinenza di questa popolazione di minori ma ad essa appartiene l’ampia maggioranza di coloro che se ne rendono protagonisti. In tema di “trattamento”, sempre tenendo a mente l’interesse del minore, ci si chiede quanto sia auspicabile, in questi casi, che la dimensione sessuale del reato venga sottolineata e fortemente percepita dal ragazzo all’interno di uno scenario “penale”, perché si corre il rischio di sollecitare il minore ad una sorta di “autostigmatizzazione”, non già del proprio gesto o della propria condotta, seppur illeciti e deplorevoli, bensì della propria sessualità in toto.

Dall’indagine condotta attraverso i focus group sono emerse anche altre “storie”, ancorché minoritarie, che portano invece il segno delle vulnerabilità: vulnerabilità di ordine ora neuropsichiatrico (psichica o cognitiva) ora sociale, ora psico-affettivo, ora familiare e via dicendo. Vulnerabilità che non di rado si sovrappongono le une alle altre. Si vedono qui condotte messe in atto da ragazzi che per molti versi sembrano esser rimasti “orfani”: non solo delle famiglie nel senso già prima accennato ma di tutte le altre agenzie educative che non li hanno saputi ri-conoscere, accogliere, ascoltare ed accompagnare. È come se essi dichiarassero che permane un elevato rischio di fallimento dello stesso sistema sociale di tutela nel suo complesso – o richiamassero comunque l’attenzione su questo rischio. Un sistema che non riesce ad evitare in molti casi la recidiva ed in alcuni casi il transito nella criminalità adulta. Questi ragazzi ci segnalano universi di vita di seria compromissione esistenziale, per carenze/assenze nelle funzioni genitoriali, per mancanza di regole e validi riferimenti, per condizioni ambientali a forte rischio deviante, per fragilità personali, disturbi del comportamento e dell’apprendimento, abbandoni scolastici, assunzione di sostanze, patologie psichiche o vissuti di violenza intra familiare. In età adolescenziale, ciascuno degli elementi passati rapidamente in rassegna può trovare picchi di espressione e di particolare problematicità di intervento e di gestione. Certamente, se ciascuno di essi fosse intercettato tempestivamente, all’insorgenza, o quanto meno prima del loro amplificarsi, accumularsi e fondersi, vi sarebbero maggiori e più efficaci spazi ed opportunità di trattamento e recupero. Ciò vale sia per la quota maggioritaria di minori autori di reato sessuale, che non presentano profili specifici (ragazzi “normali”, che commettono un reato relazionale episodico, riconducibile più al “fraintendimento” illecito che all’aggressione sessuale e che superano quasi “spontaneamente” il momento di passaggio al cui interno il reato si è determinato) sia per la quota minoritaria di minori autori di reato sessuale caratterizzati dai profili più specifici e dalle fragilità prima descritte.

Ad ogni buon conto, questa eterogeneità di comportamenti rientra oggi di in una altrettanto ampia tipologia di reato caricata di un forte disvalore in termini culturali: in tema di reati sessuali, infatti, il senso comune induce a ritenere che bambini ed adolescenti siano prevalentemente vittime, ragion per cui ci si sofferma non senza difficoltà – e per certi versi sgomento – a considerare che di tali reati anche le persone minorenni possano rendersi autori. Contribuisce al rinforzo di tale tratto culturale l’attenzione mediatica, che tende a concentrarsi soprattutto sui casi di “pedofilia”, sebbene sporadicamente vengano diffuse notizie di violenze sessuali agite dal “branco”, legate allo stereotipo del gruppo di maschi adolescenti. Ne consegue che questi reati, quando anche appaiono di modesta entità (ovvero quando si è in presenza di comportamenti di cui talvolta sfugge il valore trasgressivo e violento) acquisiscono una rilevanza giuridica proprio in quanto espressione di un portato culturale che li carica di un forte disvalore, soprattutto quando a commetterli sono gli adolescenti.

Chi si occupa di questi fenomeni in ambito psicosociale sa che solo da qualche decennio la letteratura scientifica ha iniziato ad interessarsi dei cosiddetti juvenile sex offenders, per cercare di metterne a fuoco i profili personologici e sociali, oltre alle dinamiche che conducono agli episodi di violenza, alle tipologie di relazione con la vittima e quant’altro.

Inoltre, l’argomento “sessualità” ed il pregiudizio culturale che tende a produrre in prima battuta stupore e disorientamento di fronte all’evidenza che possono esistere anche juvenile sex offenders, contribuiscono ad influenzare l’operatività, alla stregua di un rumore di fondo. Si tratta di nodi che hanno a che fare con l’area dell’emotività personale e professionale, di cui gli operatori sono perfettamente consapevoli, tant’è che non tutti si sentono a proprio agio a lavorare con minorenni coinvolti in reati sessuali, per l’appunto a ragione delle risonanze affettive che questo reato suscita. In sintesi, la “categoria” dei reati sessuali è percepita in modo differente rispetto a tutte le altre ed alcuni USSM si sono opportunamente organizzati, come si vedrà più avanti, per predisporre l’intervento di équipe specializzate. In generale, tuttavia, sembra che ad oggi la questione delle possibili interferenze/influenze della sfera soggettiva/emozionale dell’operatore sulla qualità dell’intervento sia ancora poco esplorata.

Ciò posto, nel corso dei vari focus group realizzati da Violenza Zero!, i 29 USSM operativi a livello nazionale sono stati altresì coinvolti in un momento di confronto più specificamente volto ad effettuare un affondo in merito alle modalità di “trattamento” dei minori autori di reati a sfondo sessuale presi in carico, anche al fine di individuare percorsi di recupero adeguati. Nelle pagine che seguono si tenterà di restituire quanto emerso dall’incontro con gli operatori, con riguardo a quest’ultimo aspetto ed ai principali elementi di criticità riscontrati in merito.

Strategie “trattamentali” e rapporto con équipe specializzate

I Servizi della Giustizia Minorile attuano un percorso individualizzato per ciascun minore che attraversa il circuito penale, a seconda dei bisogni e delle specifiche caratteristiche del soggetto, nonché delle potenziali risorse riferite al contesto ambientale e familiare. In base a tale principio, i minori autori di reati a sfondo sessuale usufruiscono di “trattamenti” che sono sì individualizzati ma non prevedono modalità di presa in carico “specifiche”, nel senso di “specifiche per quella particolare categoria di reati”. Come dire che i Servizi considerano in primo luogo i bisogni specifici di ciascun minore e mirano ad individuarli correttamente, al fine di mettere a punto percorsi personalizzati per favorire i processi di crescita. Infatti, la discussione dei casi all’interno dei focus group non ha mostrato, da parte dei Servizi, una spiccata tendenza a procedere nella direzione di un trattamento “differenziale” destinato agli autori di reati sessuali, sebbene – come ricordato in premessa – questa tipologia di reato sia percepita in modo “differente” rispetto a tutte le altre.

 

Vale sul punto ribadire che alcuni USSM si sono opportunamente organizzati non già per “discriminare” i minori autori di reato sessuale, bensì per predisporre a loro favore azioni più specifiche, che prevedono l’intervento di équipespecializzate, composte per l’appunto da operatori che si sentono meno esposti al rischio di eventuali influenze emozionali, evocate da questo “particolare” tipo di reato, che potrebbero avere ricadute negative sulla qualità dell’intervento. Il ricorso ad équipe specializzate, spesso esterne ai Servizi minorili, trova la sua ragione anche nel fatto che gli USSM non hanno ancora accumulato un soddisfacente bagaglio di “saperi” teorici ed operativi in ordine alla “gestione” di questi casi, visto che la letteratura sui juvenile sex offenders è relativamente recente e non vi sono ancora modelli consolidati di intervento per questa tipologia di reati, soprattutto quando essi si configurano in quelle forme più “sfumate” di cui si è detto. Di seguito, una rapida disamina delle esperienze in atto, in ciascuno dei territori in cui entrano in gioco i centri specializzati sul tema della violenza sessuale.

Ad Ancona si osserva l’intervento di alcuni servizi che si occupano di violenza di genere promuovendo incontri sui temi della relazione e dell’affettività, individuali e di gruppo. Si tratta di gruppi di sostegno psicologico, che si attivano perdefault in tutti i casi di reati sessuali. Gestito da psicologi, quest’intervento non prevede necessariamente che gli operatori dei Servizi minorili della Giustizia entrino direttamente a far parte dell’équipe.

A Firenze è attiva una collaborazione con il Centro uomini maltrattanti, che può intervenire anche in casi di autori minorenni e promuove un lavoro sulla consapevolezza del ragazzo e della famiglia.

A Trieste l’USSM ha stabilito un dialogo con il Gruppo su autori maltrattanti, Interpares. Vi opera un’équipe di psicologi, in una dimensione gruppale (il servizio è rivolto a uomini che agiscono violenza sulle loro partner e/o figli) al fine di: aumentare la sicurezza delle partner o ex partner degli uomini che partecipano al programma riabilitativo; mettere in rete il programma offerto con tutti i servizi generalmente coinvolti nei casi di violenza domestica; insegnare ai perpetratori comportamenti alternativi alla coercizione, al controllo ed all’esercizio della violenza; accrescere nella comunità l’intolleranza verso ogni forma di violenza contro le donne.

A Genova l’USSM ha stipulato una convenzione con un’associazione per uomini maltrattanti, White Dove, nata nel 1998, che si occupa dei temi della paternità e del maschile. Con nuove prospettive, nel 2013 cambia veste e diventa White Dove Evoluzione del Maschile Onlus. In particolare, è stato siglato un protocollo d’intesa (finanziato con i fondi delle leggi sulle violenze di genere) che prevede che gli psicologi lavorino in équipe con l’USSM nei casi di reati a sfondo sessuale commessi da minorenni.

A Milano, così come a Brescia, il punto di riferimento è il Centro Tiama. Si tratta di un servizio specialistico per la diagnosi e la cura dei traumi infantili legati ad abusi e maltrattamenti. Rappresenta una risorsa utile anche quando le esperienze traumatiche fanno parte del passato ma generano ancora sofferenza, come per esempio per i bambini adottati e gli adulti vittime nell’infanzia. Inoltre, il Centro affianca autori di reati, sia adulti sia minorenni, in percorsi ad hoc; coniuga l’attività clinica di diagnosi e cura con quella di formazione, supervisione e ricerca. Un’équipe di professionisti offre psicoterapia individuale, familiare e di gruppo, assistenza psicologica, consulenza legale, interventi sociali; infine, propone corsi di formazione e servizi di consulenza e supervisione per casi complessi anche ad altri enti del settore sociale, educativo, medico e legale.

A Bologna l’USSM ha stilato un accordo operativo sul tema della violenza sessuale con la città di Ferrara, dove è presente un’associazione privata fondata da un gruppo di uomini con alle spalle una lunga esperienza in questo campo. L’USSM ha quindi la possibilità di inviare i ragazzi presi in carico in questo centro ove ritenuto utile.

A Palermo tutti casi di violenza sessuale vengono inviati al gruppo Eos (acronimo di “Équipe oltre il silenzio”) specializzato nella presa in carico dei minorenni autori di reati sessuali, dove gli operatori lavorano in coppia in ogni fase del procedimento per favorire la condivisione del carico emotivo che spesso si lega a questo genere di situazioni. Negli ultimi anni ha avviato un’intesa più o meno formale con la Procura e con la Magistratura, che segnala loro repentinamente i casi di reati sessuali commessi da minorenni, sopperendo alle difficoltà operative generate dai tempi spesso lunghi che intercorrono tra la segnalazione del reato e la presa in carico.

A Bari e Lecce entrambi gli USSM hanno stipulato un protocollo d’intesa con i centri antiviolenza presenti in tutta la Regione e lavorano con i consultori delle due città in équipe apposite sul tema di abusi e maltrattamenti. Qualora si ritenga opportuno, i ragazzi vengono poi segnalati a CRISI, associazione che si occupa di mediazione, per la fase conclusiva del percorso trattamentale.

Criticità “nei” percorsi e “dei” percorsi “trattamentali”

La maggior parte dei casi presentati alla discussione dei focus group ha riguardato ragazzi per i quali è stato predisposto un percorso prevalentemente educativo, intendendo con questo termine la tendenza al ripristino delle potenzialità evolutive nella personalità in formazione, quindi la tutela del minore autore di reato, cioè il pieno rispetto del suo diritto alle condizioni che ne assicurino la crescita. Il percorso consiste sostanzialmente in un sostegno psico-socio-educativo al processo maturativo dell’adolescente che, su disposizione della Magistratura, i Servizi minorili possono rendere operativo in virtù del dispositivo della messa alla prova (MAP) previsto dall’art.28 del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, intitolato “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”. A fronte dell’eterogeneità delle storie, nei confronti di molti dei ragazzi di cui si è parlato nel corso dei focus group il Collegio giudicante aveva disposto la sospensione del processo e la MAP. Il progetto di MAP, per la maggior parte dei casi, prevede un percorso di “rieducazione” articolato in interventi pedagogici e di socializzazione, quali ad esempio: completamento dell’iter scolastico o frequenza di corsi professionali in vista di praticabili prospettive lavorative, unitamente ad attività socialmente utili (a.s.u.) ed attività di aggregazione in gruppi ludici o sportivi. A questa sorta di standard che generalmente informa qualsiasi progetto di MAP, solo in pochi casi è stato possibile rintracciare quelle specificità di cui s’è prima fatto cenno, orientate a favorire la rielaborazione dei vissuti di violenza agita, sollecitando le risorse interne del ragazzo, sia cognitive, sia affettive. Infatti, gli operatori coinvolti nei focus group hanno segnalato una serie di riflessioni in merito alle difficoltà di lavoro che essi sperimentano nella predisposizione di piani trattamentali efficaci nei confronti dei minorenni autori di reati sessuali. In particolare, sono emersi alcuni elementi di criticità, per i quali gli operatori si sentono come “spiazzati” nel loro lavoro, che risulta esposto ad un rischio involutivo riconducibile a vari fattori: dallo spazio per la scelta del percorso trattamentale più adeguato per il caso specifico, alla gestione del tempo all’interno del sistema decisionale, alle modalità con cui si entra in contatto con altri servizi territoriali. Nei casi presentati sembrano inoltre sommarsi altri elementi di complessità che riguardano le difficoltà dovute alle particolari storie individuali e familiari di questi ragazzi. In sostanza e come di seguito specificato con maggior dettaglio, vi sono alcuni nodi problematici che portano gli operatori a sentirsi in condizioni quasi “paradossali” nello svolgere il loro lavoro.

Un primo nodo è l’assenza di una rete territoriale solida, con riferimento in particolare ai Servizi Sociale e Specialistico (ASL), a fronte della presenza di molti giovani portatori di forme significative di disagio psicologico e, in alcuni casi, in condizioni di povertà economica ed educativa che si possono senza dubbio definire drammatiche. Infatti, spetterebbe anche ai Servizi territoriali il compito primario di costruire quei percorsi di sostegno alla genitorialità, che spesso risultano fondamentali per la realizzazione di un percorso trattamentale efficace per il ragazzo preso in carico dai Servizi minorili della Giustizia. Ma i Servizi sociali territoriali, per quanto sollecitati dagli USSM, risultano spesso assenti, o quantomeno sottodimensionati e poco protagonisti: “Quando abbiamo preso in carico il ragazzo era a piede libero da tre anni e continuava ad abitare nello stesso edificio della cuginetta, vittima del reato. Nel frattempo i servizi territoriali avevano preso in carico la vittima, mentre non avevano ritenuto di prendere in carico il ragazzo, nonostante fossero a 100 metri di distanza e tutto il nucleo vivesse nello stesso palazzo. Nella relazione alla Procura avevano scritto che non si riscontravano le condizioni per una presa in carico dell’autore del reato, non essendo emersi elementi che richiedevano interventi di protezione e tutela. Lui è stato quindi lasciato solo in questa situazione per tre anni, fino alla presa in carico dell’USSM” (USSM di Venezia).

 

Si ha così l’impressione che le carenze dei Servizi territoriali finisca per “spostare” l’asse di competenza degli operatori della Giustizia, i quali si sono trovati ad operare spesso in sostituzione dei loro colleghi che operano in ambito civile/amministrativo. Come dire che gli operatori dell’USSM si ritrovino ad operare alla stregua di “brokers di opportunità”, ovvero connettori di servizi, poiché il lavoro di rete non sempre esiste o le reti risultano frammentate e non riescono a coinvolgere altri servizi ed agenzie territoriali che pure dovrebbero risultare fondamentali ai fini dell’efficacia dei percorsi di recuperi di questi minori. Non di rado i Servizi minorili della Giustizia si sentono come costretti a “sacrificare” il tempo che spenderebbero a fianco del minore per garantirgli un processo di crescita e di esperienza, proprio perché sono troppo impegnati nella ricerca spasmodica delle risorse territoriali e talvolta si sentono chiamati a svolgere “pezzi” di lavoro che spetterebbero ad altri attori: “Al di là di quello che noi come USSM riusciamo a mettere in campo, ci scontriamo con le scarsissime risorse a disposizione. Dove cogliamo più sofferenza investiamo di più, ma rischiamo di tralasciare situazioni che rivelano degli elementi di rischio” (stralci dal focus group). È vero che in assenza di una sinergia inter-servizi qualcosa bisogna pur fare ma l’interrogativo resta: sarebbe più opportuno dedicare il tempo destinato al ragazzo senza doverlo svuotare del lavoro sociale poiché è necessario agire in supplenza di altri servizi.

Più in particolare, gli operatori segnalano evidenti criticità nell’impostazione di interventi multi-professionali, strutturati e personalizzati sui singoli casi, tali da prevedere una sinergia forte tra USSM, Servizi territoriali, agenzie educative e Centri specializzati (pubblici o del privato sociale) che lavorano sul tema della violenza sessuale. Sebbene molti USSM abbiano stabilito forme di intesa e collaborazione con alcuni Centri specializzati presenti nei territori, come sopra descritto, in molti dei casi discussi all’interno dei focus group il rapporto con i servizi territoriali appariva connotato da fragilità nella presa in carico integrata, soprattutto sul versante del dialogo con i Servizi TSMREE, fondamentale per la diagnosi e la costruzione di un piano trattamentale condiviso, eccezion fatta per alcuni casi specifici (disturbi di pertinenza neuropsichiatrica diagnosticati già prima della commissione del reato). Negli altri casi non sembra potersi rilevare un dialogo attivo con i Servizi Specialistici del SSN, né tantomeno l’impostazione di un intervento congiunto: “Nell’ambito della MAP abbiamo faticosamente attivato i servizi della Asl territoriale, ma hanno preso in carico solo tre degli imputati su undici. Il percorso è stato comunque fallimentare perché non si è creata l’alleanza terapeutica: potendo fare pochi incontri, gli operatori non hanno cercato di creare un rapporto di fiducia con i ragazzi, ma sono andati diretti sul lato clinico, chiedendo loro insistentemente del reato. Questo ha fatto sì che i ragazzi si sentissero profondamente giudicati” (USSM di Napoli). Tant’è che a volte gli operatori hanno persino deciso di rivolgersi ai servizi di altre città, a fronte della difficoltà di coinvolgere il proprio servizio TSMREE di riferimento: “Di fronte alla difficoltà di ottenere una valutazione diagnostica da parte della NPI di Reggio Calabria, che dovrebbe dare delle indicazioni trattamentali su casi così complessi, spesso scegliamo di far migrare i casi al Policlinico di Messina, che è un altro mondo” (USSM di Reggio Calabria). Anche l’USSM di Bari ha riscontrato grandi difficoltà nell’impostazione di un percorso trattamentale che coinvolgesse altri attori territoriali: “Un primo problema è stato il fatto che il SerD avrebbe dovuto attivare un percorso di sensibilizzazione all’uso corretto di internet, come deciso dal Giudice, ma dopo i primi colloqui si è perso strada facendo: il personale era scarsissimo e gli incontri sempre più diradati, per cui si è concluso il percorso senza un vero motivo. Ancora, il consultorio avrebbe dovuto seguire le famiglie dei ragazzi e attivare un percorso di sostegno alla genitorialità, ma lì c’è solo una psicologa che segue diversi centri, quindi gli incontri sono stati pochissimi. Ha funzionato di più la collaborazione con la NPI, che ci ha dato indicazioni su come interagire con i ragazzi, ma anche loro con il tempo hanno diluito gli incontri” (USSM di Bari).

 

Parzialmente diversa risulta la collaborazione con i già menzionati centri specializzati che si occupano specificamente di “violenza sessuale”, ove presenti nel territorio, che vengono attivati dai Servizi minorili della Giustizia o direttamente su impulso del Tribunale. Tuttavia, anche qui non si ha riscontro dell’avvenuta costruzione di sinergie ed integrazione funzionale con tutti gli altri servizi/attori del territorio, che pure dovrebbero condividere la responsabilità nei confronti del minore in carico alla Giustizia.

Altro nodo problematico si riscontra sul versante del rapporto con le famiglie: gli operatori non registrano collaborazione e sostegno da parte di molti genitori, che pure dovrebbero contribuire al completo raggiungimento degli obiettivi di recupero che la MAP – più di ogni altro istituto tra quelli previsti dal processo penale minorile – si propone. Malgrado la messa a punto dei progetti di MAP debba tener conto del contesto da cui i ragazzi provengono ed in cui devono essere re-inseriti e malgrado debba tener conto altresì dell’importanza che riveste la famiglia di origine (le cui caratteristiche sono, in molti dei casi presentati, anche significativamente correlate ai comportamenti dei ragazzi autori di reato) gli interventi “trattamentali” sembrano tendere a comprendere solo marginalmente la dimensione sociale ed altri sistemi in cui il minore è inserito – a partire, come già detto, dalla famiglia. Naturalmente, all’interno di questo quadro d’insieme si riscontrano alcune eccezioni, come nel caso già menzionato di un reato di violenza di gruppo presentato dagli operatori di Napoli. Qui i Servizi Specialistici della ASL non avevano ritenuto di disporre né di risorse, né di competenze adeguate a prendere in carico minori imputati di un reato a sfondo sessuale, per altro agito in gruppo da un numero elevato di soggetti. L’alleanza terapeutica che il lavoro di rete richiede non si è creata ed il percorso si è interrotto quasi subito. Tuttavia, gli operatori dell’USSM hanno preso contatto con il Centro famiglie territoriale (finanziato dall’Ente Locale) per avviare un percorso di lavoro, risultato proficuo, con le madri dei ragazzi, che sono state coinvolte in gruppi di sostegno per tutto il periodo di MAP. L’esperienza pregressa dell’USSM, nell’ambito di percorsi di sostegno alle famiglie in setting gruppali, ha così consentito di costruire prontamente un dialogo col territorio, per avviare un intervento parallelo alla MAP, ma solo dopo una lunga fase iniziale in cui il lavoro è stato gestito esclusivamente dai Servizi minorili della Giustizia, con notevoli difficoltà nella costruzione di un’alleanza con la rete parentale e nella definizione del percorso trattamentale ed educativo.

La difficoltà di coinvolgere le famiglie risulta ovviamente di gran lunga maggiore nei casi di violenza intrafamiliare, che richiedono ai Servizi minorili della Giustizia un duro lavoro di ritessitura di un dialogo fortemente compromesso. In questo senso, il caso presentato dall’USSM di Brescia è emblematico: la vittima, una ragazza di sedici anni abusata per anni dal fratello di un anno più giovane e dal padre, era stata collocata per decisione della Procura in una comunità protetta, a seguito della segnalazione della scuola ai servizi della Giustizia. Una volta inserita in comunità, la ragazza ha iniziato a manifestare una profonda sofferenza, dovuta non solo alle violenze subite ma altresì alla recisione netta dei legami familiari, in seguito all’apertura del procedimento penale: infatti sia il padre e il fratello, sia nondimeno la madre, la ritenevano colpevole di aver rotto “un patto familiare”. Gli operatori dell’USSM hanno allora avviato un intervento complesso ed integrato per ricostruire i legami familiari a partire dal riposizionamento di ciascun membro del nucleo rispetto al reato. Tale intervento si è declinato lungo tre direttrici: una presa in carico, da parte dell’USSM, sia del fratello abusante, sia della vittima e, parallelamente, un profondo lavoro sul padre, attivando un servizio terzo qual è il Centro Tiama, prima ricordato, con cui l’USSM aveva negli anni costruito una proficua collaborazione. L’intervento così “tripartito” si è rivelato molto efficace e, a seguito di un lungo e complesso percorso, che ha portato ad una sorta di “capitolazione” definitiva della figura paterna, la madre ha ricucito il legame con la figlia e la famiglia ne è uscita rafforzata e nuovamente unita.

In merito alla costruzione dei progetti di MAP, che pure configura un altro nodo problematico, è emblematica una breve frase stralciata da un focus group: “La messa alla prova è come un calderone che contiene un po’ di tutto”. Gli operatori sono concordi nel riconoscere che spesso la messa alla prova costituisce l’unica opportunità per intervenire su dimensioni di fragilità e sofferenza che poco o nulla hanno a che fare con la condotta penale. Beninteso, non v’è dubbio che la messa alla prova rappresenti l’istituto che più di ogni altro e per la sua stessa natura consente di conseguire appieno l’obiettivo di responsabilizzare e recuperare il minore autore di reato e risulti pertanto una misura preziosa anche nel caso dei minori protagonisti di reati a sfondo sessuale. Ma la questione in gioco è che spesso l’intervento della Giustizia Minorile, quindi l’ingresso del minorenne nel circuito penale, fa emergere problematiche che poco hanno a che vedere con il reato commesso, come situazioni di forte disagio familiare, sociale e psichico: “Il reato nella vita di alcuni di questi ragazzi sembra la cosa meno drammatica che sia successa loro. Concentrarsi sull’elemento meno rilevante di fronte a una storia così tragica è fuorviante e si rischia di intervenire sulla dimensione sbagliata” (USSM di Bologna). Non solo: come affermato da molti operatori, l’ingresso nel sistema penale è talvolta necessario per intervenire su situazioni di fragilità fino ad allora rimaste inascoltate, sebbene si tratti di dimensioni che sarebbero di competenza dell’ambito civile/amministrativo: “Che possibilità c’erano per questo ragazzo? Senza la MAP lui sarebbe rimasto solo e non avrebbe fatto un lavoro di elaborazione del proprio agito né del proprio passato, così come la madre. Necessitava della risoluzione di problematiche che non avevano a che vedere tanto col penale, ma che devono incappare nell’area penale per avere una presa in carico sul territorio efficace, che altrimenti non avrebbero. All’interno della MAP si finisce per lavorare su tante difficoltà e problematiche che si sarebbero potute risolvere molto tempo prima. La MAP si configura allora come un calderone in cui viene inserito un po’ di tutto” (USSM di Taranto).

Per chiarire il tema della coesistenza di una procedura civile parallela a quella penale, avviata da parte del Tribunale per i Minorenni, vale ricordare quanto riferito dall’USSM di Bari in merito a questa prassi operativa che appare piuttosto consolidata in determinate situazioni: “Quando ci sono dei casi particolari, ovvero ragazzi che presentano una fragilità emotiva e psicologica, il Tribunale di Bari apre parallelamente il civile. Questo ci consente di attivare una rete altrimenti assente: i servizi tendono a dire che se non sono investiti ufficialmente non partecipano. La tutela per mezzo del civile viene attivata nelle situazioni che hanno predisposto o favorito l’evento reato, o quando le famiglie non riescono ad accompagnare i figli nel percorso. In altre parole, per attivare i servizi territoriali è necessario aprire un procedimento civile” (USSM di Bari). A fronte di una sorta di “latitanza” di molti servizi e agenzie educative, che pur dovrebbero intervenire per far fronte a situazioni di disagio e sofferenza, il ruolo della Giustizia Minorile appare confuso nella sua duplice dimensione di esercizio di una funzione penale e di esercizio di una funzione di tutela e recupero/rieducazione: da una parte, come nel caso presentato dall’USSM di Taranto, l’intervento della Giustizia viene considerato nei termini di un’opportunità, spesso l’unica possibile ma per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con l’azione penale vera e propria. Ne consegue che in questi casi la Giustizia Minorile dovrebbe esercitare un ruolo puramente educativo/rieducativo e di recupero, che per molti versi mal si concilia con l’azione più squisitamente penale. D’altra parte, la scelta della Magistratura di affiancare un procedimento civile a quello penale, anche quando non è necessario valutare provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale, mette in luce tutte la difficoltà cui vanno incontro i Servizi minorile della Giustizia nell’esercitare il proprio ruolo di tutela nei confronti del minorenne e di attivare una rete di attori territoriali che possa intervenire a sostegno del ragazzo.

 

Questa sorta di “confusione epistemologica” viene avvertita dagli operatori con ancor maggior cogenza in presenza di un altro nodo problematico: la presa in carico di minorenni portatori di fragilità psicologiche o cognitive. Si tratta, come più volte accennato, di condizioni di ritardo mentale di grado lieve[4]. Anche qui emergono dai focus group criticità relative al tipo di intervento da attivare. I percorsi di sostegno psicologico a favore di ragazzi portatori di queste fragilità, avviate durante il periodo detentivo, ovvero durante la permanenza in comunità, non sono associate alla precisazione di eventuali pattern diagnostici, né accompagnate da momenti di monitoraggio dell’andamento o degli esiti. Inoltre, nelle prime fasi dell’iter giudiziario, in cui molte volte il minore sviluppa significative dinamiche difensive o comunque attraversa un periodo disadattativo, vengono messi in atto per lo più interventi di sostegno aspecifico o generiche terapie farmacologiche. Infine, solo per un numero esiguo di minori abusanti vengono effettuati accertamenti specialistici, disposti in riferimento ad una pregressa diagnosi di insufficienza mentale, di patologia dello sviluppo o, ancora, laddove siano comparsi palesi disturbi del comportamento, anche in conseguenza del non adattamento al collocamento in struttura ovvero in ambiente intramurario. In ogni caso, quand’anche è presente una diagnosi precedente il reato o una perizia richiesta in occasione del processo, che attestano la presenza di ritardi cognitivi e disturbi psicologici, talvolta interessanti proprio la sfera sessuale, quasi mai vengono considerati nei termini della capacità del minore di sostenere il processo e il percorso di MAP. Anche in questi casi, la MAP è considerata un’opportunità dalla maggior parte degli operatori, come mostra il già citato caso presentato dall’USSM di Taranto, relativamente a un ragazzo che aveva una diagnosi (precedente il reato) di ritardo mentale, alla quale si era aggiunta in sede di perizia una ulteriore diagnosi di disturbo della sfera sessuale e per il quale era stata disposta una MAP, benché orientata totalmente verso un percorso di cura. Tuttavia permangono le perplessità sul fatto che si debba lavorare all’interno di una MAP, cioè di una misura penale, per riuscire ad intervenire in maniera tardiva su problemi che di penale hanno poco e nei cui confronti altre agenzie avrebbero dovuto mettere in campo misure adeguate molto tempo prima.

 

[4] La presenza di numerosi minorenni con ritardo mentale in carico ai Servizi Minorili conferma un certo grado di associazione fra comportamento sessuale inappropriato e ritardo mentale, in accordo con quanto segnalato in letteratura, cioè un tasso di disabilità mentale nettamente superiore tra gli abusanti, rispetto alla popolazione generale (Steiner, J. 1984, Group counseling with retarded offenders, Social Work, 29, 181-182; White, D.L., Wood, H. Lancaster Counter MRO Program in J.A. Stark, F.J. Menolascino, M.H. Albarelli & C.C. Gray, Eds, Mental retardation/mental health: classification, diagnosis, treatment, sercives. New York, Sprinter Verlag, 1988). Ciò potrebbe trovare spiegazione nella scarsa maturità ed in un ridotto accesso all’educazione sessuale, che può condurre a sviluppare false credenze in tema di sessualità. Del resto, le condizioni di deficit cognitivo implicano una riduzione della capacità di giudizio e delle competenze sociali e si associano a solitudine, scarsa competenza nel corteggiamento, insufficienti capacità di riconoscere i propri bisogni sessuali (Rosso, C., Carombo, M.F., Furlan, PM. Aggressori Sessuali, Torino, Centro Scientifico, 2010).

Posizione condivisa anche dall’USSM di Palermo nei confronti di un ragazzo descritto come “un caso al limite”, a cui era stato riconosciuto in sede di perizia un ritardo di tipo culturale, avvalorato dal fatto che il ragazzo era per giunta analfabeta: “Il ragazzo è uno di dei classici “invisibili” che non vengono mai intercettati. La scuola non lo ha mai segnalato a nessun servizio di neuropsichiatria, non c’è nessun fascicolo aperto al civile, il Comune non conosce il nucleo se non per l’assistenza economica. Mi sono chiesto se il suo ritardo culturale gli consentiva di stare in giudizio, di sostenere il processo. Le possibilità erano due: richiedere una misura di sicurezza con una diagnosi, o fare un percorso di MAP all’interno di un procedimento penale, che però gli avrebbe permesso di fare una serie di attività a cui altrimenti non avrebbe avuto mai accesso nella sua vita” (USSM di Palermo).

Gli operatori riconoscono alla MAP il suo intrinseco valore di opportunità di riscatto e recupero ma sanno bene che essa conserva pur sempre una dimensione penale, con i rischi che ciò comporta in termini di possibile “deriva penale” e perdita di tutela. Qualora la MAP non abbia esito positivo, o in caso di grave o reiterata trasgressione al programma ed alle regole che esso prevede, o ancora in caso di recidiva durante il periodo di prova, la sospensione del processo può essere revocata ed il fallimento ricade sul ragazzo, che rischia di andare incontro a condanna per non aver portato a termine un percorso di cura, come paventato nel caso sopra illustrato dall’USSM di Taranto.

Tutto ciò per ribadire che, in presenza di evidenti fragilità psichiche già refertate, oppure accertate da una perizia richiesta dal Giudice, si pone la scelta tra misure penali e misure di carattere più spiccatamente sanitario, eventualmente accompagnate dall’apertura di procedimenti anche in sede civile. In generale, pare che la scelta di avviare questa tipologia di minori verso percorsi “trattamentali” all’interno del sistema penale sia dovuta alle opportunità che tali percorsi mettono loro a disposizione, seppur permanga la consapevolezza del rischio di leggere all’interno di una cornice penale comportamenti che dovrebbero essere valutati in altri contesti. È quanto emerge dal caso illustrato dall’USSM di Bologna: “Si tratta di un ragazzo che dall’età di nove anni è in carico alla NPI, a 13 anni ha iniziato a entrare e uscire da comunità educative e terapeutiche, con numerosi ricoveri nei reparti psichiatrici, approda alla fine in una comunità terapeutica di Bologna dove compie il reato, violentando un’altra paziente. È stato condannato a due anni, la sua condizione psichica non è stata considerata ed è andato in carcere. Ora sta scontando la pena in una comunità terapeutica. La sua incapacità è stata considerata nei termini della condanna ma non in relazione al suo comportamento” (USSM di Bologna). A fronte del fatto che, qualora fosse stata debitamente considerata la situazione di sofferenza psichica di questo ragazzo, egli sarebbe stato comunque inserito in una comunità terapeutica nell’ambito di un procedimento civile, c’è da chiedersi perché si sia deciso di riconoscere un reato, dato che il percorso “trattamentale” sarebbe stato lo stesso.

Nel complesso si ricava dunque l’impressione che i percorsi di “trattamento” tengano raramente conto di indicatori psicologici o psichiatrici, relativi alle aree in cui poter esercitare interventi “mirati”. E dalla discussione di molti di questi casi emerge che la Magistratura tende a prediligere un principio di contenimento e minimizzazione del rischio di recidiva, come messo in evidenza dal caso presentato dall’USSM di Messina: “Il ragazzo è affetto da diversi disturbi psichiatrici, tra i quali una difficoltà a gestire i propri impulsi sessuali, diagnosticati fin dall’infanzia. Era stato collocato in comunità in seguito all’apertura di un procedimento amministrativo perché era ritenuto pericoloso anche dalla sua famiglia. Durante il processo è stata richiesta una perizia, dalla quale è emersa una parziale capacità di intendere e di volere. Nonostante questo, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi da scontare in una comunità educativa – l’ennesima attraversata dal ragazzo nel corso della sua vita. Così come le volte precedenti, la permanenza in comunità non ha funzionato. La pena è allora diventata esecutiva ed è stato trasferito prima presso l’IPM di Catania, poi in quello di Caltanissetta. Ora, all’età di 21 anni, si trova nel carcere per adulti di Giarre” (USSM di Messina).

 

Il caso presentato dall’USSM di Milano si inscrive nello stesso ordine di criticità, sebbene l’esito sia differente: “Il ragazzo era già interessato da procedimento amministrativo, durante il quale era stata richiesta una CTU che aveva fatto emergere un trauma nella sfera sessuale e della relazione interpersonale avvenuto durante l’infanzia. Dopo la denuncia a piede libero, è stata fatta una perizia psicodiagnostica da cui era emerso un deficit cognitivo che limitava le capacità di adattamento al contesto sociale, la capacità di riflettere su di sé e sulla propria emotività e la relazione con gli altri. Erano inoltre presenti vissuti traumatici che determinavano profondi bisogni insoddisfatti di accudimento e di cura che lui ricercava costantemente negli altri. Si riscontrava il rischio di compiere azioni lesive senza riuscire in autonomia a rendersi conto delle conseguenze. Nonostante questo, è stato condannato a un anno e due mesi, ma è stata applicata in via provvisoria la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario in comunità. Il Tribunale ha in seguito ritenuto di fare una verifica ed è stata rivalutata la sua invalidità: è stato quindi riconosciuto come invalido, ma solo in seguito” (USSM Milano).

 

Mantenere questi ragazzi nel sistema penale solleva inoltre il problema di come garantire loro il diritto ad essere informati in merito a quanto accade nel corso del procedimento, nonché in merito alle misure adottate ed alle prospettive che tali misure offrono. Il Giudice, nel perseguire l’obiettivo di rieducare/recuperare il minore autore di reato sessuale ed affetto da patologia mentale, si avvale certamente dell’affidamento ai Servizi minorili della Giustizia ma resta assai complesso, all’interno del sistema penale, far sì che questi ragazzi non restino meri destinatari di decisioni imposte per assumere invece, insieme alle loro famiglie ed al territorio tutto, quel ruolo “attivo” previsto dallo stesso procedimento penale minorile.

In ordine al nodo problematico relativo alla specificità del percorso “trattamentale” rispetto al reato, come già accennato, la discussione dei casi all’interno dei focus group non ha mostrato, ad eccezione di poche situazioni, una tendenza dei Servizi a procedere nella direzione di un trattamento “differenziale” destinato agli autori di reati sessuali, sebbene questa tipologia di reato sia percepita in modo “differente” rispetto a tutte le altre. Molti operatori hanno espresso forti perplessità sul punto, ritenendo che troppo spesso i percorsi di MAP vengono impostati “di default” nella misura in cui prevedono attività per molti versi “standardizzate”, che non sempre risultano opportune o necessarie ai casi specifici: “Se la nostra è una messa alla prova, ovvero un processo di cambiamento, soprattutto in ambito sessuale, si dovrebbe parlare di educazione alla sessualità e all’affettività. Invece si bypassa la peculiarità del reato, trattandoli tutti allo stesso modo. Questa tipologia di reati ci chiede di partire dal reato, e guardarlo insieme al ragazzo nel suo complesso” (stralcio dai focus group). In alcuni casi ciò sembra avere ricadute negative anche sull’adesione al progetto da parte dei ragazzi, i quali non sempre mostrano un pieno coinvolgimento nel proprio percorso di MAP, al di là della mera adesione formale all’impegno preso, talvolta strumentale al raggiungimento dell’obiettivo di una sentenza di estinzione del reato per esito positivo della prova. È quanto emerso, ad esempio, dal caso presentato dall’USSM di Ancona: “Il percorso trattamentale non prevedeva attività specifiche sull’elaborazione del reato. Ora la MAP si è appena conclusa e avrà sicuramente un esito positivo, poiché il ragazzo ha effettivamente partecipato attivamente a tutte le attività proposte, ma era un’adesione solo formale. Mi chiedo quindi se l’esito della MAP si possa considerare davvero positivo, considerando che il ragazzo non ha rielaborato minimamente il reato commesso, continuando a difendere il proprio comportamento e a incolpare di tutto la vittima” (USSM di Ancona).

 

Per contro, alcuni casi discussi durante i focus group hanno messo in luce alcune situazioni che ricevono sì un trattamento “differenziale” ma in senso “escludente”: la specificità del reato viene considerata quando si tratta di escludere gli autori di reato da attività che si svolgono in determinati contesti sociali, considerati a rischio per l’eventualità che la condotta illecita possa essere reiterata. Ne dà conferma il fatto che in nessuno dei casi presentati siano state inserite nei progetti di MAP attività socialmente utili a contatto con bambini: come ricordato dagli operatori, ciò è in parte dovuto ad una norma comunitaria introdotta dal dlgs n. 39/2014, in base alla quale chiunque voglia assumere dipendenti o collaboratori che lavorino a stretto contatto con i bambini deve richiedere il certificato penale al casellario giudiziale, al fine di escludere che a loro carico risultino condanne o carichi pendenti per reati a sfondo sessuale. Tuttavia, tenendo conto del fatto che l’istituto della messa alla prova, come si è detto, ha la funzione di responsabilizzare e recuperare il minore autore di reato attraverso la partecipazione ad attività volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, a risarcire il danno cagionato, gli operatori si sono interrogati sull’opportunità di mettere alla prova il minore nella sua capacità di gestire i suoi impulsi e rielaborare il suo agito, pur in contesti costantemente monitorati e sorvegliati. È chiaro che ciò espone la comunità nel suo complesso a un rischio ma il rischio può essere ridotto con l’affiancamento di figure di adulti responsabili. Alcuni casi presentati all’interno dei focus group hanno messo in luce che l’esclusione dei ragazzi autori di reato sessuale da questi specifici contesti non solo non si pone necessariamente in linea con le finalità del percorso “trattamentale” ma rischia di generare o rafforzare uno stigma sociale a danno del minore, come illustra quello proposto dall’USSM di Bologna: “Il ragazzo era accusato di ricezione di materiale pedopornografico. Faceva da tempo l’animatore presso una parrocchia e faceva l’aiuto-allenatore in una squadra di calcio composta da bambini piccoli. Dopo l’apertura del procedimento, il parroco l’ha mandato via e contestualmente ha dovuto lasciare anche la scuola calcio. Nonostante una CTP avesse accertato l’assenza di rischi qualora il ragazzo fosse stato in contesti in cui fossero presenti dei bambini, chiedendo di reinserirlo nelle attività che svolgeva, la Magistratura ha rigettato il progetto chiedendo una rimodulazione della MAP che comprendesse un’attività di volontariato con gli anziani. Dopo questa udienza lui si è sentito molto umiliato e stigmatizzato rispetto alla pericolosità sociale che non solo non aveva mai agito ma non avrebbe mai avuto intenzione di agire” (USSM di Bologna). Una situazione simile è stata riscontrata dall’USSM di Torino, relativamente ad un ragazzo che aveva richiesto (ma mai ottenuto) del materiale foto/video a una ragazza di dodici anni – di cui, peraltro, ignorava l’età – conosciuta on line due anni prima dell’apertura del procedimento: “Lui allenava una squadra di pallamano, ma non ha più potuto perché c’è una norma per cui bisogna sottoscrivere di non avere precedenti per reati sessuali per lavorare con i bambini. L’avviso di garanzia e le sue conseguenze hanno mandato nel panico lui e la sua famiglia, con conseguenze pesanti sul suo andamento scolastico. Si è impegnato tantissimo nel percorso di messa alla prova, faceva di tutto per dimostrare agli altri di non essere un mostro” (USSM di Torino). Sembra di poter dedurre che rispetto ad alcune situazioni ci sia una riprovazione morale tale da portare la comunità nel suo complesso a non prendersi carico di questa tipologia di minorenni. Al contrario, si dovrebbe garantire l’esecuzione dell’intervento di recupero all’interno del contesto di vita del ragazzo, anziché stigmatizzarlo per il reato commesso. Del resto, l’idea stessa di Giustizia di Comunità consiste per l’appunto nel promuovere che tutti gli attori della comunità concorrano a realizzare un percorso di crescita e cambiamento.

La possibilità di accedere alle informazioni sulla dinamica del reato da parte degli operatori dei Servizi minorili della Giustizia rappresenta anch’essa un nodo problematico, nella misura in cui se ne avverte l’esigenza al fine di impostare un percorso “trattamentale” in grado di sollecitare una consapevolezza del minore relativamente al proprio agito. Orbene, gli operatori si trovano in difficoltà sul punto perché non sempre la Procura Minorile condivide queste informazioni, soprattutto in fase di indagine, per ragioni di tutela nei confronti sia della vittima, sia dell’indagato:

La Procura non ci invia niente, specialmente su questa tipologia di reati. Siamo noi USSM che andiamo lì e chiediamo di visionare il fascicolo, quello che possiamo vedere lo vediamo. Capita però che ci venga detto: voi siete assistenti sociali, non dovete leggere niente perché sennò vi fate influenzare. Così spesso andiamo a parlare delle situazioni senza sapere proprio la dinamica del reato” (USSM di Perugia). Ne consegue che gli operatori lamentano di esser spesso chiamati a impostare un percorso “trattamentale” facendo affidamento solo su quanto riferito dal minore, in merito al reato, a meno che non siano essi stessi ad ingegnarsi per approfondire le vicende, ove possibile: “L’autore del reato è il cugino maggiore della vittima. A quattro anni dal fatto c’è stata una brutta sorpresa: in udienza la Procura ha allargato il capo di imputazione alla violenza sessuale, che prima non era compresa. Noi siamo rimasti assolutamente spiazzati, non capivamo cosa fosse cambiato. Io non avevo nessun atto perché la Procura non ci ha mai coinvolti, nemmeno nell’incidente probatorio. Allora di mia iniziativa sono andata al Centro per il bambino maltrattato di Padova, che aveva in carico la cuginetta, e sono finalmente riuscita a leggere le relazioni e comprendere la dinamica del reato” (USSM di Venezia). Quando invece la dinamica del reato non può esser altrimenti ricostruita, non resta altro che presumere il vissuto del minore rispetto al reato, rischiando di tralasciare dimensioni importanti: “Il ragazzo è accusato di istigazione al suicidio e reati online, ma non ha mai diffuso il materiale inviatogli dalla vittima e non risulta che l’abbia mai minacciata. Sinceramente non si capisce da dove arrivi l’accusa di istigazione al suicidio, non sono riuscita a ricostruirlo” (USSM di Cagliari).  Se per un verso si chiede ai Servizi minorili della Giustizia di svolgere un’indagine preliminare per acquisire il maggior numero di informazioni al fine di proporre in sede di giudizio un piano “trattamentale” adeguato, per un altro verso gli operatori incontrano un ostacolo che impedisce loro di disporre di elementi a loro avviso sostanziali per fornire in sede di giudizio ragguagli in merito ad aspetti importanti, qual è ad esempio l’avvenuto riconoscimento del disvalore della propria condotta da parte del minore, che rappresenta per l’appunto un fondamentale requisito di cui il Collegio giudicante tiene conto ai fini della concessione del beneficio della MAP.

Ultimo ma non meno rilevante nodo problematico segnalato dagli operatori è quello inerente i tempi dell’intervento, con riguardo sia alla durata dell’intervento sia al fatto che l’intervento non sempre giunge “puntuale” rispetto ai processi di crescita del minore. Posto infatti che l’azione dell’intero sistema di Giustizia minorile, per come concepito in Italia, tende ad abbreviare e rendere meno invasiva possibile la permanenza del minore al suo interno, gli operatori avvertono un elemento di criticità dei loro interventi nel fatto che una MAP con tempi lunghi ed attivata “tardivamente” – anche per ragioni intrinseche all’iter processuale – cioè quando il ragazzo ha già superato il momento della sua vita in cui è insorto l’evento reato, risulta in molti casi “disfunzionale” e poco sostenibile ai fini dell’obiettivo di educare e responsabilizzare. Certamente tutto ciò non sempre è vero ma è senz’altro vero nel caso assai frequenti in cui il reato a sfondo sessuale è del tutto episodico – il ragazzo non ha più manifestato segnali di rischio – ed è stato compiuto anni prima dell’implementazione di un progetto di MAP, che si inserisce nella vita di un soggetto ormai transitato – per molti versi “spontaneamente” – in una fase più “matura” e consapevole della propria vita sessuale: “Si tratta di un reato di gruppo commesso nel 2015 – i ragazzi all’epoca avevano 15 anni – che aveva portato all’apertura di un procedimento che nel 2019 era ancora in corso, perché il caso era stato sospeso in fase dibattimentale a causa di un sovraccarico del Servizio. Dopo quattro anni i tre coimputati, ormai maggiorenni, sono ancora in attesa di sapere se faranno o meno un percorso di messa alla prova” (USSM di Bari). Anche l’USSM di Siena registra un’analoga “sfasatura” temporale tra il momento dell’attivazione dell’intervento e l’evoluzione della vita del minore, dovuto stavolta a problemi interni alla Procura: “Il reato è stato commesso nel 2014, ma è arrivato nel nostro ufficio nel 2018. A quel tempo il ragazzo era già ampiamente consapevole di aver sbagliato, aveva anche fatto un percorso psicologico. Diceva che oggi non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non ho ritenuto di inserire un percorso psicologico all’interno della MAP: quando c’è uno scollamento temporale come questo, che senso ha?” (USSM di Siena). Allo stesso modo l’USSM di Venezia, che nel caso già citato metteva in luce alcune criticità relative al dialogo con la Procura, ha ricevuto la segnalazione in oggetto in modo casuale e informale – un incontro fortuito con l’avvocato del ragazzo nei corridoi dell’USSM – dopo oltre tre anni dall’evento reato: “eravamo già molto in ritardo. Se non fosse stata segnalata la situazione dall’avvocato e avessimo aspettato la segnalazione della Procura, probabilmente sarebbero passati altri 6 o 7 mesi” (USSM di Venezia).

 

Ancora in tema di tempi dell’intervento, a giudizio degli operatori ascoltati l’elemento di criticità concerne anche le risorse da mettere in campo: si offre ciò che si ha e non ciò che serve, e lo si offre quando lo si ha, non quando serve. Come dire che si cerca di inserire questi ragazzi nei percorsi “trattamentali” che si hanno a disposizione e non sempre in quelli che potrebbero servire ed in tal modo si perdono anche l’abitudine e l’interesse a cercare cosa possa essere realmente utile a costoro, così che quando lo si capisce non si può farne nulla perché non lo si trova: “Noi continuiamo a lavorare sulla provvisorietà: in questo periodo ho delle risorse sul territorio, sì o no? Molto spesso le risorse sono legate a dei progetti, quindi sono sempre situazioni temporanee. E quanto possono approfondire quella situazione? Sarebbe necessario creare un servizio specifico che approfondisce queste situazioni, non come queste soluzioni sempre estemporanee, in cui ciascuno cerca di arrabattarsi come può” (stralci dai focus group).

Progettazione e realizzazione di Violenza Zero! trovano fondamento in una sorta di assunto di base, ampiamente descritto nei documenti preliminari: nel corso degli ultimi decenni, le trasformazioni sociali e  culturali da cui è progressivamente scaturito un ripensamento complessivo del “comune sentire” in tema di sessualità, hanno altresì sollecitato il diritto – ed in particolare il diritto penale – a svolgere una funzione di accompagnamento dell’evoluzione dei “codici” della sessualità (l’insieme delle prassi sociali e culturali che informano l’espressione della sessualità) fino a coinvolgere direttamente la Magistratura in quella forma di controllo della gestione dei corpi e dell’intersoggettività, che oggi è nota col termine “biopolitica”. L’evoluzione del diritto, nell’accompagnare la trasformazione dei “codici” della sessualità, si è posta anche in tensione dialettica con tali trasformazioni e ciò ha reso più complessa la definizione di cosa sia il reato sessuale, proprio nella misura in cui questo reato – per come oggi concepito dal codice penale – si riferisce ad una dimensione valoriale, simbolica e, in sintesi, profondamente culturale. Senza dubbio, tutti i reati sono anche culturalmente connotati ma nel caso dei reati sessuali – a sfondo sessuale o che a vario titolo hanno a che fare con la sessualità – la dimensione valoriale e culturale è forse più evidente. E la stessa funzione della Magistratura è oggi chiamata a rafforzare il consolidamento – come dire: a “venire in soccorso” – di questa nuova dimensione culturale, per favorire un processo di cambiamento, altrimenti contrastato dalle consuetudini ancora non pienamente sintoniche con l’evoluzione di quel “comune sentire” in tema di sessualità, che – come detto – è complessa. Ricordando quanto scritto nelle memorie del procuratore Gideon Hausner[5], ogni processo implica una volontà di risanamento, un desiderio di esemplarità, attira l’attenzione, racconta una storia, esprime una morale!

Per meglio dire, nello specifico della Giustizia minorile, l’azione della Magistratura si muove da tempo nella direzione di non minimizzare condotte che in passato sarebbero state trascurate e che a tutt’oggi solo in apparenza si mostrano “lievi”. In verità non sono affatto lievi, proprio nella misura in cui contrastano la dimensione valoriale e culturale che ha accompagnato l’evoluzione del “comune sentire” in tema di sessualità, oggi orientato verso il rispetto della persona, della differenza di genere e della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nella sfera sessuale. Anche i minori debbono di ciò acquisire piena consapevolezza e per l’appunto all’acquisizione di consapevolezza in merito al disvalore della propria condotta che mirano gli interventi di recupero messi in campo dalla Magistratura, attraverso le misure di cui dispone nell’ambito dell’azione penale. Proprio perché nell’ambito della popolazione minorile – così come in quella adulta – non sempre vi è consapevolezza di questo disvalore e prevalgono invece il mancato rispetto dell’altro, la negazione narcisistica della dignità del partner sessuale o della persona offesa dal reato sessuale (ad esempio nel caso di diffusione di immagini o filmati “intimi” senza consenso valido) oppure la cultura della dominanza (associata ad esempio, come segnalano gli operatori, ai residui del “senso comune del maschile”) la Magistratura esercita un’azione penale per l’appunto al fine ultimo di promuovere tale consapevolezza e, a giudizio degli operatori, quando il lavoro sulla consapevolezza ha successo, i ragazzi riescono a cambiare per davvero. Certamente resta un interrogativo sul perché nel contesto sociale e culturale permangano attitudini mentali ed atteggiamenti tutt’altro che sintonici con l’evoluzione del “comune sentire” in tema di sessualità – l’evoluzione verso una sessualità più “sana” e rispettosa dell’altro – e che tendono anzi a contrastare tale evoluzione, venendo in ciò a rappresentare un fattore “diseducativo” e fuorviante per le nuove generazioni. Ma la risposta a questo interrogativo esula dalle finalità di Violenza Zero! e del resto è stato già ampiamente ricordato che la trasformazione culturale dei sistemi valoriali in tema di sessualità è complessa ed anche per tale ragione l’evoluzione del diritto in materia di reati sessuali è intervenuta per darvi appoggio con l’azione penale e rafforzarne il consolidamento.

Posto ciò, Violenza zero! ha inteso rispondere all’esigenza di approntare strumenti preventivi, formativi ed operativi più incisivi nel contrastare il fenomeno dei minori che attraversano il circuito penale perché coinvolti in reati connessi alla sessualità. Con quest’intento ha perseguito l’obiettivo di contestualizzare gli interventi in atto a tutela di questi minori, all’interno di un panorama sociale, culturale e giuridico che ha fatto registrare profondi mutamenti sia nell’approccio complessivo a tale fenomeno, sia nel modo di predisporre misure nei suoi confronti, da parte di tutti gli operatori coinvolti ed in particolare da parte del sistema di Giustizia minorile.

L’incontro con gli operatori dei Servizi minorili della Giustizia provenienti da più parti d’Italia, oggetto di questo Report, restituisce il fatto che si sono trovati anch’essi in prima linea nel confrontarsi con l’evoluzione del “comune sentire” in tema di sessualità e col rinnovato approccio alla definizione del reato sessuale da parte del codice penale. In termini molto semplici ed a titolo di esempio: fino a qualche tempo fa si era abituati a considerare lo stupro, individuale o di gruppo, come emblema del reato sessuale e si era altresì abituati a ritenere che solo in casi rari se ne rendessero protagonisti adolescenti o soggetti minorenni, nella convinzione che i minori fossero soprattutto vittime delle varie forme di violenza sessuale. Da qualche decennio si assiste invece ad un aumento dei minori che attraversano il circuito penale perché imputati di reati sessuali, unitamente ad un proliferare delle fattispecie di reato richiamate nei capi d’imputazione (palpeggiamenti, molestie, cyberreati, sexting, sextortion, diffusione di immagini tramite i social, solo per citare alcuni tra i moltissimi esempi possibili). Si è, inoltre, progressivamente sviluppata una crescente letteratura scientifica dedicata al fenomeno dei juvenile sex offenders, fatta di studi volti ad analizzare e descrivere la genesi del reato sessuale e le possibilità di “trattamento” di coloro che vi sono coinvolti.

È stato altresì ampiamente descritto nei documenti preliminari che, per quanto emerge dalla casistica presentata dagli operatori degli USSM, la tipologia dei comportamenti che configurano il reato (capi d’imputazione) spazia da una quota minoritaria di vere e proprie forme di sopraffazione violenta (come nel caso esemplare della violenza sessuale, individuale o di gruppo) fino ad una quota ampiamente maggioritaria di condotte in cui il reato sembra rimandare all’espressione di ciò che si è tentato di definire con l’espressione “sperimentazione maldestra” – ancorché illecita e deprecabile – della sessualità. In tale quota maggioritaria rientrano condotte agite da ragazzi che: a) non presentano profili specifici, né dal punto di vista psicologico né dal punto di vista sociologico; b) entrano in contatto col sistema penale per la prima e spesso unica volta, in seguito ad un reato relazionale, che vede coinvolta una vittima coetanea; c) si rendono protagonisti, pur senza averne piena consapevolezza, di comportamenti che si potrebbero definire “sessualizzati”, in cui è carente il completo consenso dell’altro e che rappresentano un momento transitorio del proprio sviluppo psicosessuale e relazionale, peraltro già superato quando vengono presi in carico.

Orbene, in tema di strategie “trattamentali”, si osserva che, nei confronti di quella minoranza della loro popolazione target, composta come appena detto da profili di minori più assimilabili ai veri e propri juvenile sex offenders descritti dalla letteratura scientifica, la gran parte degli USSM si è “attrezzata” stabilendo varie forme di sinergia (protocolli d’intesa, convenzioni, accordi operativi e quant’altro) con strutture che si possono definire “specializzate” in tema di reati sessuali, generalmente già attive nei vari territori, per la presa in carico di persone adulte. In tal modo gli operatori dei Servizi minorili si sono dotati di potenziali interlocutori, che consentano loro di trovare un appoggio, o un punto di riferimento, per attivare, a favore di questi minori, percorsi caratterizzati da una sorta di “specificità” relativa alla tipologia di reato di cui si sono resi protagonisti (sostegno sui temi della relazione e dell’affettività; aiuto all’acquisizione della consapevolezza e nel promuovere una maggiore elaborazione in materia di violenza e gestione degli impulsi; superamento del trauma; educazione alla tolleranza della differenza di genere; esperienze di riconoscimento della sofferenza dell’altro, fino a forme di mediazione indiretta e giustizia riparativa). Ciò anche perché le conoscenze sul fenomeno e, soprattutto, sulle strategie “trattamentali”, sono ben lungi dall’aver fornito indicazioni univoche (come si evince dall’analisi dell’ancorché fiorente letteratura scientifica in materia) ed appaiono pertanto poco diffuse tra gli operatori. Come dire che, per molti versi, i Servizi minorili, non disponendo ancora di un adeguato e consolidato bagaglio di “saperi” conoscitivi ed operativi su una materia che peraltro – ancorché studiata – è tuttora poco definita, tentano necessariamente di attingere a risorse esterne, nel senso di appoggiarsi a “saperi” esterni. In proposito vale ricordare che la gestione di questi casi risente altresì di preoccupazioni relative a numerosissimi elementi di criticità, tra cui la necessità di tener conto del rischio di recidiva e dell’esigenza di contenere la pericolosità sociale, che inevitabilmente produce momenti di frizione con l’esigenza – primaria per i Servizi minorili della Giustizia – di promuovere il recupero psico-socio-educativo dei minori presi in carico. Inoltre, la concomitanza di fragilità psichiche di più o meno elevato livello di gravità, spesso associate a contesti familiari multiproblematici o a condizioni di degrado sociale, rende più cogente la rilevanza del lavoro con le famiglie e sulle famiglie, in cui spesso risiedono le possibilità di successo degli interventi.

Di tutt’altro ordine la problematica, sempre in tema di “trattamento”, relativa all’incontro tra i servizi e quella quota ampiamente maggioritaria della loro popolazione target, composta invece da minori autori di un insieme di reati sessuali che, seppur ampio e variegato, è comunque configurato da condotte assai più “sfumate”, per le quali si è proposta la definizione di “sperimentazione maldestra” – ancorché illecita e deprecabile – della sessualità. Nei confronti di costoro, gli operatori dei servizi hanno per molti versi la percezione di trovarsi in presenza di minori il cui comportamento (quello da cui è scaturita l’imputazione) abbia una scarsa rilevanza penale. Come dire che la trasformazione culturale e la conseguente evoluzione del codice penale nel modo di considerare i reati sessuali – già ampiamente descritta prima – ha per molti versi colto alla sprovvista i Servizi minorili: è vero che gli operatori appaiono ben sintonizzati col mutamento intervenuto nel “comune sentire” in tema di sessualità e nell’assetto del codice penale, perché hanno acquisito e condiviso piena consapevolezza del fatto che, nell’attuale contesto sociale e culturale, il sistema penale rivolge una diversa attenzione ad eventi e condotte – oggi considerate reati – che fino a pochi decenni fa non erano ritenuti sanzionabili; è altrettanto vero che, per contro, gli stessi operatori in molti casi si domandano se quella sorta di “paucità penale” – che pure osservano nella maggior parte dei minori presi in carico – possa effettivamente ed appieno giustificare il senso di interventi lunghi e complessi (in primo luogo i progetti di MAP) che giungono anche intempestivi rispetto ai tempi ed ai processi di crescita cui il minore (ad esempio un adolescente) è andato incontro durante l’iter del procedimento (dalla segnalazione, alla fase di indagini da parte della Procura fino alla comparsa in giudizio). Se si considera questa sorta di “doppia percezione” da parte degli operatori – si ricordi sempre: in presenza della quota maggioritaria della loro popolazione target, composta da minori autori di reato sessuale configurato da condotte “sfumate” – non può stupire il riscontro di una eterogeneità di risposte (gli interventi attivabili) e di un certo grado di ciò che si potrebbe definire “confusione” rispetto al senso dell’azione penale. La domanda che si intravede in filigrana si può così formulare: fino a che punto l’azione penale è davvero efficace e pertinente ai fini del recupero di questi ragazzi?

Certamente l’indagine svolta ha gettato lo sguardo su un fenomeno molto ampio, che raccoglie un insieme variegato di situazioni e fattispecie di reato, fino ad includere la disamina di casi di minori portatori di varie forme di disagio mentale e/o ritardo cognitivo. Questi ultimi profili, seppur minoritari, rendono ancor più cogenti gli interrogativi – da parte degli operatori – intorno alla problematicità di riconoscere il senso ed il confine della dimensione penale, con riguardo in primo luogo alla prospettiva che la dimensione penale è effettivamente in grado di fornire ai fini del “recupero” di questi minori.

In sintesi, si può affermare che, per gli operatori, la questione in gioco sembra essere quella di far emergere e riconoscere con chiarezza il significato ed il valore educativo (cioè di recupero) dell’azione penale. Di fronte alla maggioranza dei casi in presenza, in cui il disvalore della condotta per la quale il minore compare in giudizio può essere elevato (in accordo con l’evoluzione sia del “comune sentire” in tema di sessualità, sia del codice penale) a fronte però di uno spazio di manovra piuttosto modesto dell’azione penale (rispetto al fine di recupero del minore) vien da sé che la stessa azione penale trova un senso ed una giustificazione solo se il sistema di Giustizia minorile ritiene di poter svolgere, con gli strumenti ed i metodi di cui dispone, una funzione educativa o rieducativa – cioè di recupero. E ciò vale anche di fronte alla quota minoritaria di situazioni difficili (minori appartenenti a famiglia mutiproblematiche o portatori di varie forme di disagio mentale e/o ritardo cognitivo) per i quali appare evidente che l’azione penale è chiamata ad esercitare quella funzione educativa, rieducativa e di recupero che altre agenzie (dalla famiglia alla scuola, fino all’intera società nel suo complesso) non sono in grado di realizzare o non sono state in grado di realizzare finora. Certamente il sistema di Giustizia minorile in molti casi agisce come la proverbiale “nottola di Minerva”, che si leva al tramonto, cioè quando è ormai tardi per fare altro. Ed anche di ciò gli operatori sono ben consapevoli, visto che comunque restano avvezzi e sempre disponibili a scendere in campo per realizzare quanto in loro potere, pur sapendo di lavorare sul “ritardo” di altri. Tuttavia essi avvertono giustamente il rischio che l’azione penale finisca per rappresentare un’azione solo o prevalentemente “penalizzante”, nella misura in cui mette in moto (cioè delega ai Servizi minorili ai fini della loro attuazione) interventi che a loro volta possono comportare una sorta di scivolamento verso una dimensione in cui il significato penale prende il sopravvento su quello educativo (fino a rendere concreta una sorta di “criminalizzazione secondaria” dei minori coinvolti).

È noto che il reato sessuale, ancorché “sfumato” ed occasionale, solo raramente può esser giudicato irrilevante (cioè tale da esser risolto con una pronuncia ex art.27) ed altresì noto che la condanna (ancorché mitigata da una pronuncia clemenziale di perdono giudiziale ex art. 169, ove ne ricorrano i presupposti) ha sempre scarso valore rieducativo, seppur finanche nel periodo di eventuale espiazione in ambiente intramurario il ragazzo sia sempre beneficiario di tutti gli interventi di tutela e di recupero di cui la Giustizia minorile dispone. Ragion per cui la stessa Magistratura è orientata, sempre se ne ricorrono i presupposti, a concedere il beneficio della MAP e delega i Servizi minorili per lo studio di fattibilità e l’eventuale predisposizione di un percorso di recupero. Ma se il ragazzo non è motivato, visto anche il tempo trascorso dall’evento che ha dato inizio alla sua avventura nel circuito penale, incontra incidenti di percorso e commette un altro reato – anche diverso dal precedente – e quant’altro può accadere, certamente la sua situazione rischia di complicarsi, con conseguenze non sempre prevedibili in termini di perdita di tutela. I casi in cui diviene più concreto il rischio di andare incontro alle conseguenze più temibili (criminalizzazione secondaria) sono ben lungi dall’essere all’ordine del giorno ma la frustrazione di un percorso fallito o la sensazione di inutilità, che lascia la dolorosa esperienza di aver attraversato il sistema penale senza averne ben capito il perché e senza aver compreso il significato di quell’azione educativa che gli operatori hanno tentato di esercitare a favore del ragazzo, senza dubbio non giova ad orientare al meglio il suo futuro.

Ad ogni buon conto, è per l’appunto sulla messa a punto di progetti di MAP efficaci che si concentrano le perplessità e le difficoltà degli operatori. Progetti di MAP efficaci non solo nel favorire la possibilità di estinguere il reato (che seppur strumentale a meri fini difensivi, favorisce pur sempre la rapida fuoriuscita dal sistema penale) ma in primo luogo a fornire una valida opportunità di genuina comprensione e revisione della propria condotta, ai fini di un pieno recupero ed un’evoluzione positiva della personalità. In questa prospettiva, la pluralità degli interventi attivabili nell’ambito di un progetto di MAP e che gli operatori tendono a proporre e predisporre, d’intesa col minore, generalmente si colloca sulla linea degli interventi ritenuti più idonei a potenziare quella dimensione educativa in cui l’azione penale, come detto, dovrebbe trovare il suo senso, tra cui, ad esempio, l’accompagnamento psicoeducativo o l’educazione alla sessualità ed al rispetto della differenza di genere. Tuttavia, gli operatori segnalano che questo sforzo di personalizzare i percorsi di MAP sulla specificità del reato non sempre trova l’attesa corrispondenza nell’orientamento della Magistratura con cui interagiscono, che a volte è più intenzionata ad “imporre” paradigmi di MAP più rigidi, cioè progetti in cui siano necessariamente comprese anche a.s.u. ed altri “ingredienti” più o meno standardizzati, che rischiano di mettere in forse la sostenibilità dell’intero progetto da parte del minore (come dire che il minore fatica a condividerne l’utilità). Ciò aggiunge certamente ulteriori elementi di incertezza ad interventi già di per sé resi complessi sia dal fatto che queste MAP giungono, come già più volte ricordato, tardive rispetto ai tempi di maturazione del minore (che si trova come ad esser “riportato artificiosamente indietro”); sia dal fatto che queste MAP, spesso di lunga durata, non sono ben misurabili in ordine all’esito; nonché dal fatto che, sul piano concettuale, non vi sono ancora modelli consolidati di intervento per questa tipologia di reati, soprattutto quando ricadono nelle forme più “sfumate” piuttosto che in quelle osservate nel caso dei juvenile sex offenders più studiati dalla letteratura scientifica.  

Ancora in tema di MAP, vale sottolineare la questione della consapevolezza del disvalore dei propri agiti, che dovrebbe rappresentare la precondizione per la concessione del beneficio ex art.28 (sospensione del processo ed affidamento in prova ai Servizi minorili). Questa precondizione non sempre sussiste o, quanto meno, non sempre sussiste in maniera “genuina” (il ragazzo dichiara una presa di distanza dalla propria condotta solo perché ammaestrato in tal senso dal difensore) e del resto ciò non può destare meraviglia, perché – anche dal punto di vista strettamente logico – la consapevolezza di cui si parla andrebbe considerata non già “il presupposto” bensì “l’esito positivo” di quel programma di responsabilizzazione, maturazione e revisione critica della propria condotta, che per l’appunto il percorso attivato dalla concessione del beneficio è stato in grado di promuovere e portare a compimento. Se quell’educazione alla sessualità ed al rispetto della differenza di genere fosse già stata acquisita (anche grazie al lavoro dei Servizi minorili che si occupano del minore quando i fatti sono ancora in fase d’indagini in Procura) prima che il minore compaia innanzi al Collegio giudicante, l’intervento rieducativo e di recupero che l’azione penale tenta di realizzare attraverso la MAP sarebbe quasi ultroneo. Vero è che, come da più parti segnalato, gli operatori di Servizi minorili lamentano di non riuscire a trovare, in molti casi, un soddisfacente livello di interlocuzione con le Procure minorili, anche per comprensibili ragioni di segretezza da parte di queste ultime in ordine a fatti piuttosto delicati (quali per antonomasia le ipotesi di reato sessuale) e ciò, ad ulteriore conferma dell’affollarsi di fattori di complessità nella gestione di questi casi, senza dubbio non agevola quel lavoro preliminare degli USSM, che pure gioca un ruolo determinante ai fini della messa in campo di tempestive misure di tutela e recupero già in fase preprocessuale, nella misura in cui consente ai Servizi stessi di “guadagnare tempo”, viste anche le inevitabili lungaggini dell’iter procedurale, per giungere già attrezzati (ad esempio con relazioni ex art.9) e, in sintesi, con le idee più chiare, quando il minore è tratto in giudizio. In ordine alla questione della consapevolezza intesa quale precondizione per la MAP, interessa ribadire che, nel caso maggioritario delle condotte “sfumate”, si parla di reati non solo relazionali ma di reati in cui una vera ed esplicita “intenzionalità criminale” appare modesta ed il minore, seppur si renda più o meno vagamente conto che qualcosa ha sbagliato (non fosse altro che per l’evidenza di trovarsi in un’aula di Tribunale) in cuor suo rivendica per altri versi una sorta di sua “soggettiva” su come sono andati i fatti e non ha acquisito quella piena revisione critica dei propri agiti a cui per l’appunto lo strumento “educativo” della MAP si propone di avvicinarlo. Qualora il ragazzo fosse già “maturato”, perché ha superato “naturalmente” l’età della vita e la fase della sua esperienza da cui l’evento reato era scaturito e giunge pertanto a processo già cambiato in positivo rispetto a com’era prima, non per questo il processo esita sempre in giudizio favorevole, nel senso che sovente si attiva comunque una MAP sulla cui utilità molti nutrono dubbi legittimi.

Questa dinamica costituisce per gli operatori particolare motivo di perplessità, se non vero e proprio disorientamento, nei casi in cui sussistono fragilità psicologiche o cognitive, che sono generalmente pregresse. In questi casi vengono infatti sollevati due quesiti: il primo riguarda il perché la Giustizia debba supplire – e supplire tardivamente – alle carenze o agli insuccessi delle altre agenzie educative, come già descritto prima; il secondo è se sia un bene che l’intervento della Giustizia, vista l’esiguità dello spazio di manovra dell’azione educativa e di recupero che la stessa Giustizia è in grado di esercitare in situazioni in cui predomina una condizione di disturbo psicologico o cognitivo, debba comunque condurre all’instaurarsi di un procedimento penale che, come altresì già detto, non è esente da rischi in termini di tutela, proprio perché la sua efficacia “educativa” (a paragone con quella meramente sanzionatoria) è quanto mai limitata.

Un altro aspetto sul quale gli operatori richiamano l’attenzione è costituito dall’importanza del lavoro con le famiglie e sulle famiglie già in parte accennato prima, che diviene cogente di fronte a casi di reati sessuali compiuti in ambito intrafamiliare. Quando lo scenario vede il coinvolgimento di un autore adulto e di un minore vittima, i Servizi minorili non intercettano l’adulto e semmai intervengono a tutela della vittima minorenne o quanto meno solo con essa entrano in contatto diretto. Nei casi in cui sono invece coinvolti anche minori nelle vesti di autori, i Servizi minorili entrano in gioco in prima linea e spesso accanto agli operatori dell’ente locale (Servizi Sociali comunali) che sono i principali interlocutori dei Tribunali per i Minorenni, ove il procedimento penale sia concomitante all’apertura di un fascicolo in sede civile. È per l’appunto di fronte a questi scenari che i livelli di complessità di gestione del caso si moltiplicano e riguardano sia la difficoltà di districarsi all’interno della rete di relazioni affettive in cui il reato/abuso si è consumato, sia – soprattutto – gli interrogativi intorno al possibile posizionamento dell’intervento educativo/rieducativo e di recupero del minore, in un contesto familiare/parentale sovente lacerato e fortemente compromesso proprio in conseguenza dell’evento da cui è scaturito il procedimento penale.

Per giungere ad una sintesi finale, di fronte alla ricchezza di stimoli e questioni che l’ascolto dei Servizi nel corso dei focus group ha fornito, si può azzardare il tentativo di tracciare una sorta di matrice dei nodi critici cui vanno incontro gli operatori, per come dagli stessi segnalato. Si rileva in sostanza ciò che si può definire un “disallineamento” dei Servizi, riferito a quattro versanti. Il primo è un disallineamento nel dialogo con la Magistratura (Procura e Collegio giudicante) di cui gli operatori non sempre riescono a condividere le decisioni e le strategie d’intervento. Il secondo, strettamente connesso al primo, riguarda la natura degli interventi da implementare ed il significato ultimo dell’azione da realizzare (in primis attraverso la MAP). Il terzo si riferisce al rapporto con le famiglie, che sovente sono difficili da fidelizzare in tema di condivisione degli interventi destinati ai minori, non solo nei casi di famiglie di per sé “problematiche”. Il quarto inerisce il rapporto con i minori stessi, che non sempre capiscono o condividono il senso positivo delle attività che sono chiamati a svolgere (adesione puramente formale ai percorsi disposti).

Ciò che si è voluto qui chiamare “disallineamento” va inteso in un contesto di relativo “isolamento” in cui gli operatori si trovano ad operare, nella presa in carico di questi casi. Isolamento che discende da più fattori: i Servizi minorili giungono “dopo”, “per ultimi” e per molti versi “tardi”, a ragione delle carenze delle altre agenzie territoriali; i Servizi minorili non dispongono di un soddisfacente bagaglio di “saperi” teorici ed operativi, perché non vi sono ancora modelli consolidati di intervento per questa tipologia di reati (soprattutto quando ricadono nelle forme più “sfumate”, piuttosto che in quelle osservate nel caso dei juvenile sex offenders più studiati dalla letteratura scientifica) né possono compensare tale carenza attraverso il dialogo con altre agenzie territoriali, in primo luogo la scuola ed il SSN, che sono altrettanto impreparate; l’ampia rete degli interlocutori territoriali, indispensabili per l’inserimento dei minori in attività socialmente utili, di risocializzazione e recupero – rete che abitualmente collabora con i Servizi minorili (dagli enti religiosi alle strutture sportive) – è in difficoltà nell’accogliere minori coinvolti in reati sessuali, nel timore di esporre a rischi il gruppo dei pari.

 

[5] Pubblico Ministero nel processo Eichmann, citato da Daniele Giglioli in Critica della vittima (Nottetempo, Milano 2014, p.56).